E’ già Frida Kahlo mania a Milano per la mostra dedicata alla leggendaria artista messicana. Oltre dieci anni fa visitai il suo museo, la Casa Azul, a Città del Messico e m’innamorai della sua arte e della sua vita. “Rubo” le parole del giornalista Pino Cacucci che ha scritto un gran bell’articolo a riguardo per il Venerdì di Repubblica.
Pino Cacucci per il Venerdì di Repubblica
Fridomania, la definiscono da tempo in Messico, termine ormai entrato nel vocabolario non solo del grande Paese a sud del Río Bravo, ma anche dell’ intero continente, Stati Uniti in testa, visto che l’ irresistibile attrazione per le opere di Frida Kahlo si scatenò sui media quando nel lontano 1990 Madonna vinse un’ asta stratosferica per un suo dipinto – allora tra i meno conosciuti, ma del resto, nel 1990 chi conosceva Frida Kahlo? – e di lì a poco venne allestita una retrospettiva al Metropolitan Museum of Arts, con i media che la incoronavano «regina di New York»…
Curioso destino, perché Frida frequentò la Grande Mela, dove espose ma soprattutto si ricoverò in cliniche specializzate per tentare di rimettere in sesto la martoriata spina dorsale, però, a giudicare sia da alcuni successivi dipinti che da pochi commenti estremamente acidi espressi in pubblico, non apprezzò affatto la American way of life. Erano i tempi del viscerale antimperialismo di Frida & Diego, del resto condiviso da milioni di compatrioti.
Resta il fatto che nel 1990 Frida la conoscevano soltanto gli assidui frequentatori del Distrito Federal – El De-Efe come chiamavano allora la capitale-megalopoli che ora ha assunto la sigla CDMX, apparente numero romano che sta per Ciudad de México – poi, nel giro di pochi anni, la parafernalia di oggettistica e souvenir avrebbe invaso ogni angolo dell’ intero Paese: dalle magliette alle borse della spesa, passando per un’ infinità di manufatti (scarpe o bottiglie di tequila comprese), in un tripudio di facce e faccette prese dai suoi autoritratti ma anche stravolgimenti fumettistici e pacchiani di quel bel volto intriso di struggente melancolia.
Ay, pobre Frida, se lo avesse immaginato, di finire addirittura come icona pop di stilisti, lei che si vestiva da tehuana per provocare i benpensanti, indossando non a caso i costumi tipici delle donne indigene dell’ Istmo, quelle che ancor oggi difendono con le unghie e coi denti il matriarcato nei villaggi, e lo faceva alla faccia del razzismo imperante nella nuova borghesia “postrivoluzionaria”, per la quale il termine “indio” veniva usato in senso dispregiativo: si presentava così, a eventi pubblici e vernissage, vestita “da india”, ostentando quel mezzo sorriso ironico e lanciando sguardi fieri con i suoi scintillanti occhi di ossidiana nera. Forse, per come la conosciamo, avrebbe invece apprezzato che tante donne indigene oggi sfamino i figli proprio vendendo ai turisti nei mercatini o per la strada qualsiasi cosa con la sua effigie…
Ma il mito non è nato tanto dalle opere quanto dalla sua esistenza travagliata e ardente, improntata a un rabbioso amore per la vita – Viva la Vida, scrisse a pennello nell’ ultimo dipinto, quando sentiva avvicinarsi la fine – e all’ istintiva capacità di irridere alla morte, la Pelona, la Calaca, come la chiamava lei, tra la miriade di nomi che i messicani hanno inventato per prenderci confidenza. La fridomania non è dilagata solo grazie alle esposizioni, ma soprattutto con il diffondersi di biografie e informazioni sempre più dettagliate su chi fu veramente Frida e come visse la sua epoca di sconvolgenti mutazioni.
Il fascino è scaturito dalla conoscenza dell’ agire quotidiano, della sua rebeldía irriducibile e di quanto fu protagonista, assieme alle mujeres del suo tempo, della vera Revolución, quella che sovvertì – a Città del Messico, non nel resto della nazione – tradizioni oscurantiste e usi e costumi legati al vecchio regime, assimilati da una società sorta da un bagno di sangue forse rigeneratore dal punto di vista della democrazia formale, ma ancora legata al razzismo più o meno inconsapevole, alla repressione dei comportamenti sessuali, all’ incapacità di cambiare davvero. Quelle donne imposero una mutazione radicale, e Frida ne fu, ancor giovane rispetto alle altre, protagonista assoluta. Tanto interesse per la Frida mujer, ha per forza di cose relegato in secondo piano la conoscenza approfondita della Frida artista.
E la mostra che si inaugura al Mudec di Milano il 1° febbraio, va esattamente contro la tendenza del “mito”, per svelarci l’ opera di un’ artista che, a suo tempo, venne catalogata sommariamente come “surrealista”, termine che lei stessa rifiutò con un misto di umiltà e ironia, affermando «io dipingo solo me stessa», cioè dipingeva la carica dirompente che si portava dentro, quella che Breton definì «una bomba avvolta da un nastro di seta».
Diego Sileo, curatore della mostra intitolata appunto Frida. Oltre il mito, dichiara senza mezzi termini: «Per quanto possa sembrare paradossale, è proprio il gran numero di eventi espositivi dedicati a Frida Kahlo che ha portato a ideare questo nuovo progetto, perché la leggenda che si è creata attorno alla vita dell’ artista è spesso servita solo a offuscare l’ effettiva conoscenza della sua poetica».
In effetti le mostre su Frida Kahlo hanno spesso puntato a illustrare – rischiando, in alcuni casi, di sfiorare la morbosità – i traumi familiari, la tormentata relazione con Diego Rivera, il desiderio frustrato di essere madre, e la dolorosa lotta contro la malattia. Aggiunge al riguardo Sileo: «Nel migliore dei casi la sua pittura è stata interpretata come un semplice riflesso delle vicissitudini personali o, nell’ ambito di una sorta di psicoanalisi amatoriale, come un sintomo dei suoi conflitti e disequilibri interni. L’ opera si è vista quindi radicalmente rimpiazzata dalla vita e l’ artista irrimediabilmente ingoiata dal mito».
L’ esposizione prevede un percorso in quattro sezioni: La donna, che focalizza l’ uso del suo corpo come manifesto, offrendo la propria femminilità allo sguardo del pubblico e instaurando un sistema di segni per rappresentare paure, desideri inconsci, e il rapporto con il tempo, inteso come identità indefinita, cioè senza inizio né fine; La Terra, che riconosce la forte identificazione di Frida con gli elementi della natura in un Messico dove la Madre Terra è presenza costante e intensa; La politica, argomento impossibile da ignorare per un’ artista la cui opera – e l’ intera esistenza – è irriducibilmente politica, improntata a una militanza istintivamente libertaria e di perenne rivolta; Il Dolore, dove si mette in risalto la potente qualità espressiva della sua iconografia del dolore, fatta spesso di una singolare violenza dell’ immagine che oscilla invariabilmente tra morte e vita, tra bellezza sublime e provocazione macabra.
Le oltre cento opere esposte provengono dalle due principali collezioni esistenti, quelle del museo Dolores Olmedo di Città del Messico e dei coniugi Gelman, a cui si aggiungono alcuni capolavori mai arrivati prima in Italia prestati ora dal Madison Museum of Contemporary Art, dalla Buffalo Albright-Knox Art Gallery e dal Phoenix Art Museum, e ovviamente dalla Casa Azul Museo Frida Kahlo, che per la prima volta ha concesso all’ estero l’ autoritratto (nelle pagine precedenti). La stessa esclusiva vale per L’ autobus, conservato al Dolores Olmedo, e Noci di cocco in lacrime, del Los Angeles County Museum of Art. Altro dettaglio degno di nota è la presenza di fotografie, non solo con Frida come soggetto, ma soprattutto quattro scattate da lei e firmate, più due che le sono state attribuite. E a tutto ciò si aggiungono documenti inediti, i primi che escono dal lungo lavoro di catalogazione ancora in corso alla Casa Azul.
E qui veniamo al piccolo “tesoro”, sia per studiosi in materia che per appassionati neofiti della fridomania: quando l’ artista morì, nel 1954, lasciò una stanza da bagno chiusa a chiave; Diego seguì l’ amata Friducha tre anni dopo, e scrisse sul testamento che la Casa Azul andava «al popolo messicano». Questo sancì qualcosa che probabilmente è unico al mondo: la dimora era destinata a diventare un museo, ma non sotto la gestione del governo; si creò così un comitato di cui fanno parte esponenti del mondo culturale ed esperti del settore, escludendo i politici da qualsiasi decisione, e rinunciando quindi alle sovvenzioni statali.
L’ organismo garantisce la sicurezza delle opere d’ arte, i prestiti all’ estero e la gestione dei visitatori, che pagando il biglietto finanziano tutto questo, con una media di oltre mezzo milione di presenze all’ anno che tendono ad aumentare (ma la direzione ha già imposto il limite dei 600.000, sforato l’ anno scorso, per limitare l’ usura dell’ antica dimora). Inoltre, Diego impose che quel bagno non doveva essere aperto per almeno quindici anni. Poi, la mecenate Dolores Olmedo, principale collezionista delle opere dei due artisti – nonché nominata da Diego morente presidenta del comitato del futuro museo – pretese che restasse chiuso per ben mezzo secolo.
Alla sua morte, nel 2002, nulla impediva più di aprire la misteriosa stanzetta, ma nessuno lo fece per altri due anni. Infine, l’ attuale direttrice della Casa Azul, Hilda Trujillo, ha avviato l’ immane opera di classificazione delle migliaia di documenti racchiusi nel “bagno-ripostiglio”: sotto una spessa coltre di polvere e ragnatele, è emerso un patrimonio tra disegni e bozzetti, lettere e appunti, centinaia di capi di vestiario e stoffe, gioielli e bigiotteria, e tante fotografie inedite.
A Milano verranno dunque esposti alcuni di questi “reperti della memoria”, affiancati a documenti provenienti da altri tre archivi, quelli di Isolda Kahlo, figlia della sorella Cristina, di Alejandro Gómez Arias, che fu il primo amore di Frida ed era con lei nel giorno del tragico incidente che le costò le successive sofferenze, e di Miguel Nicolás Lira, stimato intellettuale e scrittore, coetaneo e amico di Frida e Alejandro.
Tutti questi documenti inediti – assicurano gli organizzatori – offriranno nuove chiavi di lettura della produzione artistica di Frida, che in vita non si preoccupò minimamente di eccellere e tantomeno di rivaleggiare con Diego: lui era l’ artista più venerato, che godeva di una travolgente fama popolare, mentre lei rispetto al Messico del suo tempo andava controcorrente persino riguardo i dettami della «rivoluzione pittorica», quando i muralisti avevano decretato la fine del dipinto su tela affermando che l’ opera doveva essere pubblica e non relegata in collezioni o al massimo nei musei. Frida, invece, continuò imperterrita per la sua strada (unica, in tutti i sensi), e nonostante un discreto successo ottenuto in diverse mostre, per critici e pubblico rimaneva «la moglie di Rivera», tranne qualche eccezione di estimatori estasiati.
L’ ombra artistica di Diego non le pesava affatto, nulla lascia intuire la benché minima rivalità tra i due: anzi, Diego scrisse commenti incisivi e accorati sulle opere di Frida. Ma resta il fatto che allora i murales di Diego rappresentavano per tutti il riscatto della storia messicana di cui andare fieri, dalla resistenza ai Conquistadores spagnoli alla Revolución di Villa e Zapata, e soprattutto l’ orgoglio di discendere dai Maya e dagli Aztechi, civiltà che avevano raggiunto livelli eccelsi nell’ astronomia, l’ architettura, la matematica, l’ agricoltura razionalmente organizzata in base ai cicli lunari e ai sistemi di irrigazione, e anche nelle arti, ovviamente.
Poi… con il passare dei decenni, è accaduto ciò che ai tempi di Frida ancora viva sembrava impensabile: Diego rimane senz’ altro un monumento al muralismo, mentre Frida ha gradualmente incarnato l’ anima ancestrale di quella filosofia del vivere intrisa di senso della morte che Octavio Paz definiva Mexicanidad. E oggi più che mai, per la “messicanità” è Frida il simbolo, l’ essenza, il sintomo del malessere esistenziale che rende magnifico e tragico il grande paese a sud del Río Bravo. I messicani ammirano ancora Diego, ma i Maya e gli Aztechi sono lontani, come pure gli eroi martiri della rivoluzione tradita: lottando strenuamente ogni giorno per difendere la dignità soffocata dalla realtà odierna, è in Frida che si identificano.