Il 4 aprile entravo in sala operatoria per rimuovere dall’utero un fibroma benigno. Il bravissimo dottor Ticozzi, uomo di rara umanità, aveva anche trovato una cisti e un polipetto. Gli ho detto che se trovava anche una capasanta poteva togliermi pure quella! L’operazione doveva essere poco invasiva e durare un’ora. Ma una volta in sala operatoria i medici hanno trovato le mie tube di Falloppio intrise di sangue e a rischio di emorragia interna. Hanno dovuto rimuoverle e l’operazione si è allungata di tre ore e ha implicato un profondo taglio sopra il pube. Il dolore al risveglio è stato dopato dalla morfina che ahimè mi è stata tolta dopo solo un giorno e allora sì che ho visto i sorcetti verdi. Se mi scappava una risata, un colpo di tosse o uno starnuto, in automatico mi partiva una bestemmia. Ho fatto in solitaria la convalescenza post-operatoria nel mio amato borgo degli artisti a Bellano, adagiato sul lago di Como. Ogni giorno mi alzavo a fatica e con dolore. Ogni giorno mi medicavo. Ogni giorno mi siringavo. Ogni giorno mi impillolavo. Qualche giorno ho pianto come un vitellino. Non solo per il dolore fisico ma per la perdita, per l’invasione nel mio utero, ricucito da 97 punti di sutura. Prima dell’operazione avevo chiesto in confidenza al dottore di legarmi le tube perché so da anni di non desiderare figli. Sentirsi dire da un luminare che a metà operazione si è messo a pregare per via delle complicazioni mi ha spaventato. Sdraiata sul divano al lago ascoltando musica classica, soprattutto Bach, e leggendo i miei amati libri ho riflettuto a lungo sul mio corpo e sul mio spirito. Ho meditato e onorato la perdita. L’invasione nel mio delta di Venere. E ho pianto anche una scelta consapevole di non figliare sapendo che mai avrei potuto cambiare idea. Bisogna concedersi il tempo di riprendersi. Ascoltandosi tutto. Corpo. Spirito. Cuore. Utero.
Non sono una donna che ama sentirsi vittima, forse perché mi piace più dipingermi come una carnefice. Tuttavia non posso negare che sia stato in assoluto il periodo più complicato e doloroso della mia vita. Mi consolava sapere di essere circondata da una rete possente di amore e di affetti. La mia famiglia e le mie famiglie d’adozione in giro per il mondo sono state il mio punto fermo. Gli amici, i conoscenti, i fallowers … tutti mi hanno dimostrato il loro supporto, fintanto commovente come nel caso di una conoscenza virtuale che mi ha fatto recapitare sul lago un bellissimo libro di poesie. “Per tutte le volte che le tue parole hanno aiutato e divertito me, ora sono io a spedire a te parole per la tua ripresa.” E ho pianto di nuovo. Io sono incline a scoppi di risate e altrettanto accolgo le lacrime perché le emozioni vanno vissute tutte intensamente. Non conosco altro modo di vivere. E ne vado fiera. Perché sono una donna coraggiosa e libera, indipendente e sensibile. Il mio peregrinare in giro – il mio calleggiare, neologismo inventato qui a Venezia e che significa andare per calle senza meta – è essenziale al mio benessere psicofisico. Non vorrei vivere in altro modo. Il sentiero di vita va percorso fino alla fine dei propri giorni. Con baldanza e leggiadria perché non sai mai cosa la vita ti porrà sul cammino. Allora cammina e valle incontro.
Dopo un mese di convalescenza, dove ho perso cinque chili grazie alla dieta sana e analcolica che mi è stata imposta, ho fatto l’ennesima valigia e sono partita verso la mia nuova città d’elezione: Venezia che frequento ormai con assiduità da dieci anni e dove sogno di trasferirmi presto. Ad accogliermi alla Stazione di S. Lucia è arrivato lui: G., fortuita e fatale conoscenza avvenuta a marzo durante il folle e lisergico Carnevale veneziano.
L’avevo intravisto al mattino al bar Pescaria proprio davanti il Mercato del Pesce. Avevo notato subito i begli occhi e i modi gentili. Oddio mi aveva anche scassato le ‘bae’ chiedendomi tre volte di spostarmi per prendere il suo borsone. La sera stessa l’ho ritrovato in versione DJ – G. è musicista e produttore musicale – nello stesso posto e ho danzato la sua musica osservando anche il suo irresistibile sorriso. Che bel ragazzo, ho pensato. Deve averlo pensato anche lui di me – oddio più bella topa – perché quella sera si è avvicinato dicendomi “dammi un bacio.” Potevo forse negarglielo? Sì forse è vero che Robbie Bacia Tutti ma pochi mi hanno rapito come ha fatto G. Con un bacio intenso e appassionato. Di quei baci che ti fanno andare in estasi sensoriale e ti lasciano in balia e in malia del rapimento amoroso. Siamo diventati inseparabili nei giorni seguenti. A zonzo di calle in calle a raccontarci le nostre vite, ad aprirci al nuovo e ad abbracciare la fatalità del nostro incontro. Stretti e avvinghiati nell’ovattata seduzione di Venezia, abbiamo camminato, bevuto, mangiato, baciato, osservato, giocato, riso, dormito insieme. Senza fare l’amore. Ci siamo dedicati a tutto il resto con profonda e reciproca soddisfazione. Quando sono ripartita per Milano, sapevo che sarei tornata. Anche da lui. Così è stato un mese dopo l’operazione, ancora acciaccata e soprattutto impossibilitata a fare l’amore per altre tre settimane. Oh mon dieu! Ma ho riscoperto il piacere di adolescenziale memoria del petting prolungato e spinto … Ci vuole ben altro di una salpingectomia per raffreddare i miei bollenti spiriti.
Ci siamo abbracciati e baciati in stazione invasi da romantica gioia. Avendolo costretto a caricarsi le mie pesanti valigie non potevo non ripagarlo con succulento e lussurioso pranzetto alla Trattoria Antiche Carampane, sede un tempo di un famoso postribolo nella zona a luci rosse di Venezia, proprio accanto al Ponte delle Tette. Sorridenti e felici ci siamo imboccati di crostacei, di moeche e di dita … Abbiamo quasi rischiato di essere cacciati dal simpatico oste Francesco al quale ho ricordato il peccaminoso passato del luogo e che pertanto il nostro era un tributo agli antichi piaceri. Sono una tipetta piuttosto convincente nonché ben difficile da fermare e trattenere. Meglio non provarci. Lasciandomi libera, se voglio, torno. Se costretta, fuggo e non torno più. Non voglio briglie e da animale ferino quale sono pretendo di scegliere io da chi farmi domare. Montare. Battere. Come una puledra che scalcia riottosa solo per abbandonarsi suadente e sudata al corpo del suo padrone.
Le giornate di questo piovoso ma bollente maggio in laguna sono trascorse frenetiche e appassionate. Ricche di tutto ciò che rende bella la vita: passeggiate, chiacchierate, arte, cultura, vino, pappa, amore, risate, paesaggi, curiosità, fatalità, passione tanta …
E poi è giunto il momento della mia seconda prima volta. Che non avrei voluto condividere con nessun altro uomo se non G. Dall’animo profondo permeato da sincera spiritualità, dalla mente vivace e curiosa, dalla conoscenza di vita, esploratore dell’evoluzione personale. Un uomo non facile ma altrettanto affascinante. Dolcissimo. Con uno spiccato lato femmineo conosciuto e non temuto. Amante languido e attento. Lussurioso e presente. A furia di baci rapiti ovunque in giro per le magiche calli veneziane ci siamo rintanati a Casa Neva, la mia alcova qui in laguna di proprietà della mia vecia del cuore, la Neva. Con la gatta trasferitasi a Stromboli per la stagione, la topolina si è data alle folli danze amorose.
Avevo paura. Dopo l’operazione, il mio legame uterino si è fatto ancora più viscerale. Mai ero stata così cosciente della mia sessualità, del mio ventre e del mio sesso. Ero anche imbarazzata dal taglio sopra il pube, nascondendolo ai suoi occhi e proteggendolo con le mani per la fastidiosa sensazione di non sentire parte della propria carne. E di sapere di essere stata squartata dentro, nell’intimo, in utero.
Non avrei potuto trovare uomo più premuroso, capace di farmi abbandonare e dimenticare qualsiasi remora e timore. Mi ha preso la testa prima di prendermi il ventre per poi entrarmi dentro e penetrami a fondo e a lungo. Mi sono sentita “Like A Virgin” canzone che cade a pennello perché il video trash fu girato proprio qui a Venezia negli primi anni Ottanta. Vi consiglio anche di vedere la versione della stessa canzone interpretata da una brava e bella religiosa, Suor Cristina e girata anch’essa a Venezia. Insomma, La Monaca di Bellano ha perso la sua seconda verginità nella sua città d’elezione. Con un uomo d’elezione, oltre che d’erezione.
Per una volta non dettaglierò gli atti del nostro fare l’amore. Non scriverò di fellatio da gola profonda. Non racconterò di posizioni kamasutriche. Non parlerò della nostra passione carnale. Perché è il nostro privato. Usate la vostra fantasia. Immaginate una pagana appassionata e ferina che si congiunge in una notte, una mattina, un pomeriggio a Venezia con il suo amato amante, spirito ribelle e libero. Pensate ai sensi liberati e consapevoli. Alla foga e alla furia del tornare a fare l’amore dopo il dolore. La beatitudine non è uno stato in assenza di dolore bensì la dimensione che si prova dopo il male. Sentirsi in paradiso attraverso i corpi e lo spirito. Farsi un tutt’uno con l’altro stringendosi in un abbraccio prolungato e ritmato. Danzando sul corpo, affondando le mani, le bocche, i sessi uno sull’altro. Senza lasciarsi se non per lasciarsi andare. Ho fatto l’amore per la seconda prima volta ed è stato un sogno. Erotico. Reale.
Per fatalità assolutamente veneziana, lo stesso giorno ero stata in Biennale e il padiglione che più mi ha colpito è stato quello dell’Austria con una personale intitolata Amo Ergo Sum di Renate Bertlmann, straordinaria artista femminista e pioniera dell’arte performativa. Nel vedere i suoi potenti lavori, tra cui uno DEFLORATIONE, ho meditato sulla mia ormai vicina prossima deflorazione.
G. mi ha accolto e riportato in vita sessuale e amorosa. Mi ha ridato me stessa passando e rimanendomi dentro. Anche io Amo Dunque Sono.