ANALCHY IN THE USA
Durante le mie scorribande sull’isola di MANhattan, oltre a saziare la mia febbrile Jungle Fever – la basica attrazione per relazioni interraziali – con succulenti e massicce dosi di cioccolato amaro, senza disdegnare il cibo kosher – Hello Katz’s Delicatessen & Fuck Politically Correct – e rimpinzarmi la pancia di ogni prelibatezza e schifezza locale e mondiale, trovo sempre il tempo e la voglia di perdermi nelle sue street & avenue, con una predilezione per librerie – il leggendario Strand Bookstore che si fregia di possedere 18 miglia di libri e la nuova sede della Rizzoli – e musei. Metropolitan? MoMa? Guggenheim?
Certamente, ma prima di tutte queste indiscutibili istituzioni nel campo dell’arte, la vostra smaliziata e irriverente Robbie preferisce immergersi nelle sale del MoSex, il Museo del Sesso, definito dal New York Times “un misto di oscenità, allegria, creatività, volgarità e stimoli maliziosi”. Inoltre, è uno dei pochi musei al mondo vietato ai minori, pertanto non rischierete d’imbattervi in una folta schiera di bimbetti che scorrazzano tra vibratori antichi e immagini XXX tratte dai primi film porno amatoriali.
Per entrare al museo, si passa attraverso un negozio che vende sex-toys, lingerie, latex, corde, libri erotici, oltre a varie ed eventuali. Senza dubbio, il gift-store più interessante che abbia mai visitato in un museo: c’è un “cazzo” di roba da comprare e usare. Esilarante è il cartello che invita a non toccare, leccare, palpeggiare e montare le opere esposte; i sessuomani sono un vero spasso! Dopo aver dedicato al peccaminoso, e molto istruttivo, museo un articolo su Playboy Italia, per cui intervistai il direttore Mark Snyder, sono diventata una regular nelle sue sale.
Negli anni mi sono letteralmente goduta una serie di mostre temporanee, oltre alle permanenti – tra cui un tempo spiccava The Sex Lives of Animals (dove mi istruii sulle poliamorose scimmie bonobo, sulla masturbazione delle tartarughe, sui pinguini gay e sulla mania per il porno dei panda in cattività) – tra cui l’inebriante mostra fotografica Night Fever: New York Disco 1977–1979, The Bill Bernstein Photographs, una raccolta d’immagini dedicate ai discinti anni Settanta che indagava il multiculturalismo sessuale e sociale della scena notturna newyorchese di quel decennio. Le opere di Bernstein, accompagnate da interviste audio, erano presentate in un’installazione immersiva che riproduceva un vero club, invitando gli spettatori a sperimentare la libertà e l’ebbrezza dell’era della disco. Mancava solo la coca sui tavoli a specchio! Tra i club in evidenza, c’erano immagini del GG’s Barnum Room, Le Clique, Xenon, Studio 54, Ice Palace … Lo straordinario contesto di questi club permise un’interazione mai vista in precedenza tra gruppi eterogenei: gli etero ballavano con i gay, i bianchi con neri e ispanici, i giovani con i vecchi, i ricchi con i poveri. Nell’abbracciare pubblicamente identità alternative, in precedenza nascoste, questi pionieri crearono rivoluzionarie comunità che oltrepassavano i limiti allo scopo di trovare gioia e amore, spianando la strada a una cultura futura basata sull’inclusività.
L’ultima mostra che ho visitato s’intitola Punk Lust: Raw Provocation 1971-1985, un’indagine su come la cultura punk abbia usato il linguaggio della sessualità – sia in termini d’immagini che di testi delle canzoni – per trasgredire e sfidare la società, come provocazione politica e puro desiderio. La sessualità punk – non tanto focalizzata sul sesso ma piuttosto sulle dinamiche psicosessuali con un atteggiamento aggressivo e provocatorio – fu un’espressione di rivolta che giocava con gli stereotipi e si confrontava con la moralità latente, repressiva e puritana. Insomma, il suo motto non era tanto Let’s Fuck quando Fuck You e Fuck Off. Il movimento punk, influenzato anche dalla nascente e fiorente industria del porno degli anni Settanta, si sviluppò in città allora in decadenza, come New York, Londra, Detroit, Los Angeles e San Francisco. Se la generazione precedente si era ribellata abbracciando l’amore libero, il punk lo fece abbracciando qualcosa di molto più dark.
Lissa Rivera, artista e curatrice del MoSex, afferma che per il movimento punk “il sesso era più nell’abbigliamento fetish … le relazioni sessuali nella scena punk erano più orientate a rapporti BDSM, aggressivi e trasgressivi.” Contraddistinti da un alto tasso di tossicità perché quelli furono anche anni all’insegna dell’abuso di Sister Morphine, come cantava Lou Reed, l’eroina che decimò un’intera generazione.
Piccolo fatto poco conosciuto: sapevate che Sylvia Reed, moglie e manager del cantante, era una dominatrix?
Le ragazze del punk erano audaci, temerarie e sospinte da un’urgenza impellente nata sia dalla noia sia dalla lascivia: Debbie Harry dei Blondie, Chrissie Hynde dei The Pretenders, Patti Smith, Cherry Vanilla, Poly Styrene, Joan Jett … Per un resoconto più dettagliato, vi consiglio il libro di Vivien Goldman, curatrice della mostra, musicista, “punk professor” alla New York University e autrice di Revenge of the She-Punks: A Feminist Music History from Poly Styrene to Pussy Riot.
Oggi nell’iper-gentrificata, instragrammata e plastificata NYC i giovani si mettono in coda per farsi un selfie accaparrandosi una cupcake del cazzo in qualche sovrapprezzata patisserie resa famosa da Sex & The City, proprio come negli anni Settanta ci si metteva in fila per la Brown Sugar.
A ognuno il proprio “veleno” capace di farci ingoiare la realtà. Non virtuale, fakers & fuckers!
Basta un poco di zucchero e la pillola va giù. Nella gola profonda…
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