Non so se sono stata donna, non so se sono stata spirito. Son stata amore… Amo dunque sono.
SIBILLA ALERAMO (1876-1960) fu una donna coraggiosa e passionale, arsa da ‘scandalosa’ voglia di vivere, scrittrice e poetessa, autrice del primo romanzo femminista italiano: Una Donna (1901-1904). Con le sue molteplici vite, narrate in forma autobiografica, scardinò i ruoli di genere e riscrisse la storia delle donne, trasformando il dolore in un’opportunità per cambiare, sostenitrice del desiderio femminile e del diritto alla felicità, che perseguì abbandonando il marito abusante e lasciando anche l’amato figlio per liberarsi dal giogo patriarcale e condurre una vita nomade alla ricerca della passione.
Aleramo, pseudonimo di Rina Faccio, è l’anagramma di ‘amorale’, come si sentiva lei nel profondo: spudorata, scandalosa, eccentrica, autodidatta, scrittrice senza censure, pellegrina d’amore, simbolo di donna ribelle e trasgressiva.
In residenza autunnale sulla vulcanica isola di Stromboli, ho fatto conoscenza e amicizia con la folle e geniale traduttrice danese Nina Gross, voce, anzi urlo letterario, di Primo Levi, Umberto Eco, Henry Miller, Alba de Cespedes, Elena Ferrante (e tanti altri) che qui trascorre un paio di mesi. Lei lavora, molto, e beve. Io cazzeggio, molto, e bevo. Ci accomuna la passione per la vita, l’ironia, la letteratura e lo skal! (pronunciato skol, grido etilico con cui si brinda in Danimarca). Ieri sera a cena da lei mi ha ricordato, e paragonato, a Sibilla Aleramo, anima inquieta e indomita, scandalosamente libera e insofferente ai ruoli predefiniti della donna, ossia moglie e madre. Con Nina condivido anche l’essere traduttrice, seppur io di pessima qualità al suo confronto, e l’essere nullipara, avendo consapevolmente e strenuamente scelto di non fare figli. Lei è stata sposata, ora vedova, io per sempre signorina, a eccezione di un pagano rituale matrimoniale, ormai da tempo scacciato da cuore e pensieri. La mia anima vibra e si libra di nuovo, scaricata la zavorra del passato.
Così libera e liberata, sono tornata a volare in amore, a innalzarmi nella passione, mia religione di vita. Che mi colse, ancora una volta, sullo scoglio di Alicudi, isola remota e selvaggia, che tanto ricorda la mia natura aspra e poetica. In vagabondaggio isolano, vi (ri)approdai in un commovente e caldo ottobre, svagata e frizzante, nella mia ambita e sostenuta solitudine. E poi alla fine di un di-vino pranzo, giunse lui, uomo possente e ardente. Su queste isole capita di incrociarsi e di annusarsi, anche a debita e rispettosa distanza, ma la chimica animalesca si percepisce. E noi l’avevamo sentita già in passato, senza mai averla consumata ma solo pregustata. In quel sabbatico sabato, il mio Teatro di Sabbath mi impose l’audacia: “Ci vediamo stasera?”. “Sì”, la di lui risposta.
Scattò così la scintilla dell’erotica attesa dell’incontro/scontro carnale e sensoriale perché entrambi ci desideravamo.
Nella silenziosa e buia notte isolana, mi incamminai su antiche mulattiere per raggiungere l’antro amoroso dove avremmo scopato per poi fare l’amore. Non ci scambiammo parole ma solo lingue. Affamati, sopraffatti, assetati, assediati dalla lussuria dei nostri corpi, subito avvinghiati, presi, stretti, congiunti in vigorosi abbracci e liquidi baci, in una portentosa e disperata voglia di penetrarci tutti e tutto.
La stagione dell’amore viene e va, cantava il maestro siciliano Franco Battiato, che accompagna in sottofondo questo mio scritto. Perché sento che il mio amare è un ondeggiare, a ritmo sostenuto, continuo e fluttuante. Un incessante flusso sensoriale che scandaglia e scompiglia. Me e lui. Oso addirittura un ‘noi’.
So navigare i tumulti e i sollazzi dell’erotismo perché di questi mi nutro e alimento.
Quasi a ritrovare la mia salvi-fica linfa vitale e viscerale, che scaturisce eruttiva dal mio ventre, a lungo quiescente. Due anni di dolorosa e noiosa attesa di altro dal passato, di nuova eruttiva e reattiva passione, passati nel limbo dell’abbandono e dello sconforto, il tutto aumentato dall’arrivo di una pesante menopausa. Bomba depressiva, capace di spegnere ogni desiderio e annientare la mia insaziabile libido. Mi sono sentita come un lavoratore che va in pensione. Io pensionata dalla passione… Che vita vivere senza? Mi guardavo intorno, attonita e apatica, pensando ‘ma la gente come tira a campare, senza passione? Che senso ha l’esistenza senza la dannazione del piacere?’
E poi boom, eccomi pervasa da parossistica eruzione di magmatica furia uterina assaporata e gustata tra magiche isole, Alicudi, Lipari, Stromboli, dove abbiamo scopato e fatto l’amore, dormito insieme, ovunque. In edifici dismessi, nelle terme abbandonate, in case private, nei vicoli, in macchina. Avvinghiati e stremati dalla fiamma che arde in e per noi. Tutto in un botto, tutto intensamente vissuto, spazzando via le cicatrici del passato, facendo dimenticare l’età e la spossatezza sessuale, riportandoci a una nuova estasi carnale, sbranandoci i sessi, divorandoci di baci, avvolgendoci di carezze, in un’altalenante e costante ambivalenza di ferocia e tenerezza, di sensualità e amorevolezza, di dissolutezza e abbandono.
Non ricordavo più cosa significasse giacere esanime accanto al corpo di un amante, addormentarsi accucciata sul suo petto, stringersi le carni, strofinarsi come animali, leccarsi ogni ferita, abbandonarsi l’uno nelle braccia dell’altro. Tripudio di voluttuose fregole.
Ora, in perfetta sintonia con il vulcano di Stromboli, il mio indice è scattato a HIGH in una frenetica e friabile scossa sismica, che tutto muove e smuove.
Ringrazio gli dei per questo dono prezioso colto, in barba a tutto, come andava fatto: afferrandolo!
Del resto, alle donne del lac de com piace afferar l’om (scusatemi la pietosa trascrizione del dialetto laghee).
Noi donne del lago siamo forti, audaci, dirette e tanto femmine.
Donne che corrono con i lupi perché nate bestie selvatiche, capaci di annusare e conquistare la preda, che amandoci ci addolcisce rendendoci agnellini. Almeno per un po’, nelle notti sempre più oscure. Nella stagione che anticipa il letargo invernale, i miei sensi sono ravvivati e riportati in possente vita e vitalità dalla sacra fiamma della passione.
L’amore nella mia vita è stata una costante ferma e assoluta, non perché mi sia sempre sentita amata, anzi spesso ho patito la sua mancanza e ho sofferto per la durezza e la cattiveria dell’uomo, ma perché io amo sempre e comunque: amo questa vita, amo chi la abita e chi la patisce, amo regalare e regalarmi, amo le risate di pancia e le lacrime di commozione, amo i bambini e la loro meraviglia, amo i boschi e i lupi selvaggi, amo i luoghi incolti e i tuoni ruggenti bagnati di pioggia e di lampi, amo la fragilità e la forza, amo la generosità che non si aspetta niente in cambio. Amo il coraggio, ma soprattutto amo l’etica, quella ferrea che non si piega piuttosto si spezza, amo chi non si sottrae alle sue responsabilità e le vive con gioia e leggerezza, amo i giochi, le monellerie, le impertinenze, gli abbracci, gli slanci, ma amo anche i carichi che aiutano a crescere, i vuoti da riempire, la cenere da cui rinascere.
Non si può chiudere l’amore dentro una casellina, l’amore deve invadere tutto.
(Manuela Mantegazza)
E tu, amore mio, tutto invadi e m’invadi, mi pervadi e penetri, consentendomi la fragilità dell’essere al di là della verace e feroce apparenza, scudo protettivo che cela i tumulti e le sommosse del cuore, il cuore inquieto, fragile, sensibile, rammendato dopo l’ultimo amore crudele e fallace, nonché fallimentare. Tu mi hai fatto comprendere, con il tuo buon cuore, che mi ero invaghita di una nullità umana, di un senz’anima senza futuro né speranza, di un fallito amoroso. Tu mi hai ridonato il sogno dell’amore, l’orizzonte della possibilità, l’anelito di altro da me. La tua venuta, oltre alle nostre numerose e ubertose venute congiunte, ha riportato il mio delta di Venere a splendere e gocciolare di scordato piacere, grondante liquidi, afrori e sapori che temevo perduti. Tu che mi sollevi il braccio sinistro quando ci baciamo per cingermi su di te in un ‘conzo’ di lunghi, umidi, goduriosi baci, preludio dei nostri prolungati amplessi tra, sotto e sopra, le lenzuola, davanti allo specchio, sulla poltrona, sulla terrazza, inginocchiati, asserviti, vittime e prede della nostra presa sessuale in un turbinio erotico, epico, eroico, eretico. Che tutto vuole.
Passione o niente, come da profetico mantra di Gennarino Carunchio nel film cult di Lina Wertmuller, che abbiamo visto, e interrotto per amarci, in un languido e indolente pomeriggio isolano.
Tu che comprendi come la mia libertà sia suprema e travalichi ogni idea di possesso, come per amarmi mi si debba lasciare libera e sola, di tornare e di farmi amare.
Del resto, come scriveva Eve Babitz, ribelle amante e scrittrice losangelina, la mia segreta ambizione è sempre stata di restare zitella, sorella con e per la quale sento una comunione di lussuriosi e libertini sensi, noi donne liberate ed emancipate da cliché e noie quotidiane, senza uomini tra le ovaie, ma solo tra le gambe, ogni tanto in testa, che scacciamo via dopo i sollazzi carnali. Sempre Eve Babitz: Senza figli, senza cani, senza un marito e nemmeno un divorzio. Ma come avventuriera a volte ho cavalcato un cavallo bianco…
Nulla e nessuno che possa limitare la nostra vocazione al nomadismo e allo ‘sgualdrinismo.’
Quanto amo cavalcarti, di prima mattina, con la gloria del tuo cazzo che tutto rigenera, mentre ondeggio sulla tua cappella con lingua e labbra per poi infilarmelo dentro e galoppare su e giù in un crescendo di languori e umori, urlando di piacere quando mi fai godere fino allo stordimento, facendomi fremere il corpo, intervallato da gemiti e scatti di estasi.
Voglio innamorarmi in modo che la sola vista di un uomo, anche a un isolato di distanza, mi faccia tremare, penetrandomi tutta, mi indebolisca, mi faccia sussultare addolcendomi e sciogliendomi qualcosa tra le gambe. È così che voglio innamorarmi, così totalmente che il solo pensiero di lui mi porti all’orgasmo.
(Anaïs Nin)
Delta of Venus, 1969
Le mie scrittrici, le mie icone letterarie, le mie letture, la mia letteratura mi hanno permesso di giungere e raggiungere le vette dei piaceri, intrise di romanticismo e decadenza, di sogni e di possibilità, di racconti e poesia. Non sarò mai una compagna né una compagnia stabile e prevedibile, quieta e moscia, io sarò sempre moto ascensionale, moto a luogo, in fervida e fremente attività, dannatamente folle e sregolata, qualcuno da amare ma anche da lasciare. Andare. Non alla deriva. Ma dove la mia natura vorrà condurmi. Perché condividere parte del cammino ma il sentiero è mio e solo mio da intraprendere. Amo amare così e così essere amata. Nell’assoluto rispetto della libertà e indipendenza, senza alcun possesso e ossesso, scevra da gelosia e imposizioni che possono solo farmi fuggire altrove. Perché io so farmela da sola la via e la vita. Tuttavia apprezzo la compagnia e mi lascio raggiungere da queste ondate amorose che tanto mi fanno bene e bella.
Nel saggio femminista Una stanza tutta per sé (1929) la scrittrice Virginia Woolf riflette sulla rabbia degli uomini quando scrivono di donne e “arriva alla conclusione che quello che fa una donna che studia, scrive, o semplicemente esprime uno sguardo diverso e autonomo è di togliere all’uomo che le sta accanto lo specchio in cui riflettersi. Perché se la donna comincia a dire la verità, la figura nello specchio rimpicciolisce; l’uomo diventa meno adatto alla vita.”
Un consiglio a tutte le ragazze e donne: leggete le nostre antesignane femministe, rispettate la vostra libertà, la vostra autonomia. Mai sottomesse e schiave del possesso maschile. Libere di scegliersi la propria vita. Perché come scriveva la nota femminista americana Gloria Steinem: Una donna ha bisogno di un uomo tanto quanto un pesce ha bisogno di una bicicletta.
Amo volere un uomo.
Ma senza averne bisogno.
Roberta Denti