Le donne non hanno invidia del pene. Sono gli uomini a invidiare la fica.
(Valerie Solanas)
Amo gli uomini.
Aborro gli omuncoli.
Da indisciplinata e indomata donna indipendente, di tanto in tanto voglio uno o più uomini ma altresì ne posso, e ne faccio, a meno, non avendo bisogno di altro da me. Questo è un punto essenziale nella dicotomia amorosa uomo/donna che andrebbe inculcato – a calci intellettivi – nelle menti femminili. Non ricerco la lotta tra i sessi, se non quella consensuale tra le lenzuola. Amo le diversità tutte e le rispetto, essendo io stessa una diversa, definita da sagace e gaio newyorchese “un uomo gay in un corpo di donna.” Non sono un maschiaccio ma una femmina che ama il maschile. Dagli uomini so apprendere e prendere, affascinata dal loro istintivo cameratismo in opposizione alla pervasiva, e disgregativa, invidia femminile.
Ieri, 25 novembre, si è celebrata la giornata mondiale contro la violenza sulle donne. Non elencherò qui i terrificanti dati sui femminicidi in Italia. Li potete trovare altrove. Non citerò l’ultimo efferato delitto nei confronti di una di noi. Non una di meno. Nondimeno.
Perché tante, troppe, donne si costringono e umiliano in relazioni degradanti e violente? Mi spaventa la contaminata complicità in dinamiche di coppia aggressive e pericolose. Piantiamola con la manfrina della coppia a tutti i costi. Aboliamo il patriarcato culturale e sociale che subdolamente impone, anche a chi non la sente né la ricerca, la famiglia e la procreazione, il più delle volte gabbia, nemmeno dorata, per la donna. Impariamo in primis, uomini e donne, a stare bene da soli, a crescere e istruirci come individui, ad amarci senza rispecchiarci nell’altro.
Io non me la sento di addossare tutte le colpe del mondo agli uomini.
Chi alleva gli uomini che odiano le donne?
Le cicogne? Col cavolo!
Sabato scorso durante BookCity ho ascoltato in Triennale l’intervento di Chimamanda Ngozi Adichie, scrittrice nigeriana diventata una sorta d’influencer del femminismo dopo il suo discorso motivazionale, divenuto virale, a una conferenza Ted, intitolato We Should All Be Feminists – Dovremmo Essere Tutti Femministi (uomini e donne). L’autrice ha parlato del pericolo di una storia unica perché “le donne dovrebbero avere la possibilità di essere tante cose diverse” e ha raccontato di come la sua passione per la lettura l’abbia aiutata a comprendere le differenze nel mondo perché la letteratura è un viatico fondamentale per imparare i sentimenti e acquisire quella flessibilità mentale ed emotiva in grado di tradurre il mondo. Il cambiamento deve partire dalla cultura e dall’educazione, riscrivendo la narrazione uomo/donna sin dalla tenera età, smettendo di chiedere alle bambine di fare le brave e pulire e ai maschietti di essere forti e “fare i maschi.”
La dolcezza – spesso connessa a doppio filo al femminile – è sintomo di forza. L’aggressività – più di sovente legata al maschile – è una forma di debolezza. La frustrazione nel rapporto uomo-donna, mai in una fase di così epocale cambiamento, genera violenza di genere e sfocia in una mattanza di donne. Bisogna educare i maschi alle emozioni, concedere loro la forza del pianto, smettere di dire ai bambini di non fare la femminuccia, come se essere femmina fosse sinonimo d’inferiorità.
Valerie Solanas, femminista radicale e autrice nel 1967 dell’incisivo pamphlet S.C.U.M. (Society for Cutting Up Men) – Manifesto per l’eliminazione del maschio – nel suo trattato politico femminista espresse, con un linguaggio crudo, eccessivo, forte, sessualmente esplicito ma soprattutto ironico, spietate critiche su argomenti scottanti per l’epoca, indubbiamente attuali anche per la nostra, quali l’uguaglianza tra i sessi, l’emancipazione femminile, le discriminazioni nei confronti delle donne e delle minoranze in generale ma, soprattutto, l’eccessivo potere in mano agli uomini, ai “maschi che dominano la società ostentando ignoranza ed egocentrismo.” Il termine SCUM (che in inglese significa “feccia”) nel testo è usato per indicare un certo tipo di donne: femmine consapevoli, dominanti, sicure di sé, nasty – nel 2016 durante la campagna presidenziale americana, Trump definì la Clinton “nasty woman” – violente, egoiste, indipendenti, fiere che si considerano adatte a governare l’universo. L’opera è una parodia del patriarcato e delle teorie freudiane e la Solanas è una femminista incazzata e furiosa, una sorta d’Erinni, che trasforma l’uomo in “incidente biologico” rendendolo il “sesso incompleto” affetto da una profonda “invidia della vagina,” contrapposta alla teoria dell’invidia del pene di Freud.
Io il pene non l’ho mai invidiato perché l’ho sempre avuto. Qualora l’avessi voluto.
Inoltre, smettiamola con la tiritera delle donne con le palle.
Rivendico donne con le ovaie perché non ho certo bisogno di un pendulo attributo maschile per celebrare la forza della mia femminilità.
Mio padre, quando m’infervoro, percependomi isterica e con caratterino – gli uomini hanno carattere, le donne caratterino – mi apostrofa suffragetta!
Per lui, uomo nato nel 1937, quel termine indica una donna che rompe. Le regole. Lo status quo. I coglioni.
So di essere una donna diretta e brutalmente onesta – insomma una rompicoglioni certificata – ma la libertà di essere libera me la sono guadagnata istruendomi, leggendo, viaggiando per arrivare alla mia conquista più importante: la scelta, non sofferta ma sentita, di non figliare.
Come disse Natalia Aspesi: “La libertà di non fare figli è la più grande conquista della donna.”
CicciBelli, è tempo di riscrivere l’educazione di genere.
PS. Chiunque giudichi il mio scrivere “volgare” vada al diavolo. La volgarità sta nella pusillanimità. Chiamatemi tutto, chiavatemi tutta, ma non osiate mai apostrofarmi volgare.
Amo le donne.
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